La storia di Enzo
Ovvero la differenza tra “Ciclista tampona un’auto” e “Auto taglia la strada a ciclista”
L’aprile del 2009 lo ricordiamo tutti, tristemente, per via del terribile terremoto che colpì L’Aquila.
Il nostro protagonista, Enzo, invece lo “ricorda” – ironia della sorte – per un evento del quale non ha memoria!
Sono stati infatti necessari ben tre gradi di giudizio e varie perizie tecniche per poter compiutamente ricostruire ciò che accadde quel mattino del 17 aprile 2009.
Anzi, a dire il vero Enzo qualcosa ricorda: da grande sportivo quale era (e continua ad essere), quella mattina coniugava il trasferimento casa-lavoro con un allenamento con la bicicletta da corsa e l’ultimo ricordo è di aver guardato l’ora al campanile di una chiesa lungo il tragitto, per avere una stima del tempo di percorrenza. Poi… il buio.
Al risveglio in ospedale la diagnosi è stata “frattura – lussazione T6-T7 con paraplegia per incidente stradale”, ovvero nessuna sensibilità o possibilità di muovere il corpo dal petto in giù.
Purtroppo, nessuno ha assistito al fatto ed il rapporto dei Carabinieri si è basato unicamente sulle dichiarazioni rilasciate da testimoni non oculari, oltre che dal conducente dell’auto coinvolta.
Faticosamente, Enzo è venuto così a sapere che, alcuni chilometri dopo aver guardato l’ora al campanile, aveva tamponato un’autovettura ferma sul ciglio della strada.
Le poche cose che emergono dalle testimonianze asserivano che l’auto era ferma sul ciglio destro, con il motore acceso e che la sagoma invadeva parzialmente la sede stradale.
I parenti di Enzo non si danno per vinti: come è stato possibile che uno sportivo come lui, abituato ad andare in bicicletta proprio su quel tratto di strada, avesse tamponato un’auto ferma? Rivoltisi allora ad amici avvocati, per il loro tramite si è chiesto l’intervento di un Consulente Tecnico per verificare se la ricostruzione emersa dal rapporto dei Carabinieri fosse attendibile.
Previa autorizzazione giudiziaria, il Consulente ha esaminato così i veicoli, ancora in sequestro, ed eseguito un rilievo foto-planimetrico della strada.
Lo studio approfondito dei dati raccolti ha permesso al professionista di fornire agli avvocati i seguenti dati significativi:
1. punto d’urto: la collocazione trasversale rispetto all’asse viario non poteva essere quella riferita dall’automobilista (ossia auto in sosta sulla banchina): l’urto si era manifestato sul posteriore destro dell’auto, che misurava in larghezza m 1,65 oltre agli specchietti, ma la banchina misurava in larghezza solo m 1,4. Quindi necessariamente l’auto invadeva la carreggiata.
2. Compatibilità deformazioni: l’impronta rinvenuta sul portellone è a m 0,82 da terra, mentre il manubrio si trova a m 0,90 con il biciclo in posizione statica.
3. Tipologia deformazioni: il portellone mostrava una deformazione tipica del contatto con un corpo “morbido”, quale il corpo umano: tenuto conto che al momento dell’urto il biciclo aveva sicuramente fatto perno sul mozzo anteriore, impennandosi in avanti, era poco verosimile che il ciclista potesse aver colpito col corpo il portellone in un punto più in basso del manubrio.
4. Codice della Strada: in via generale, l’art. 140 CdS prevede che “gli utenti della strada devono comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale”, alla stregua di quanto disposto dall’art. 158 CdS “durante la sosta e la fermata il conducente deve adottare le opportune cautele atte a evitare incidenti”, ma ben più significativo è il disposto dell’art. 157 CdS “fuori dei centri abitati, i veicoli in sosta o in fermata devono essere collocati fuori della carreggiata, ma non … sulle banchine”.
Sulla base di questi elementi è stato celebrato il processo penale per il reato di lesioni personali colpose (art. 590 Cod. Pen.), nel quale il Consulente Tecnico della persona offesa (ossia il ciclista) e quello nominato dal responsabile civile (ossia dalla Compagnia di assicurazioni) hanno dibattuto due tesi distinte:
- la differente altezza tra i punti di contatto era compatibile unicamente con un improvviso arresto dell’auto, circostanza che andava di fatto a costituire un ostacolo imprevisto ed imprevedibile per il ciclista, che ha avuto evidentemente avanti a sé uno spazio/tempo insufficiente per poter arrestare in sicurezza il mezzo, né poteva deviarne la traiettoria (sulla sinistra c’era il rischio di essere investito dal traffico veicolare e sulla destra il manto erboso rendeva certa la caduta);
- la differente altezza tra i punti di contatto era dovuta al fatto che l’urto avvenuto inizialmente con le leve dei freni, poste circa 10 cm più in basso, pertanto compatibile con l’auto in sosta sulla banchina, tamponata dal ciclista, che –per motivi afferenti alla sfera soggettiva – procedeva lungo la banchina e non prestava attenzione avanti a sé.
La sentenza di I grado è stata pronunciata già a febbraio 2011 (a meno di due anni dal fatto: un discreto record per la giustizia italiana) e ha giudicato colpevole l’automobilista, condannandolo alla pena di € 350 di multa e al risarcimento dei danni patiti dal ciclista, nonché al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di € 15.000 (una sorta di anticipazione sul maggior danno patito, da quantificarsi poi in separata causa civile).
Proposto l’appello, nel II grado di giudizio è stato nominato un Perito (una figura super partes, a differenza del Consulente Tecnico, che rappresenta una specifica parte nel processo), affinché si procedesse alla ricostruzione della dinamica del sinistro in contraddittorio con i consulenti tecnici nominati dalle parti.
La perizia depositata ha ribaltato però la dinamica ricostruita nel processo di I grado:
- la differente altezza tra i punti di contatto era dovuta al fatto che il biciclo fosse in fase di ribaltamento in avanti, dovuto a intensa frenatura col freno anteriore; questa configurazione spiegava perché la ruota anteriore non avesse provocato danni né a se stessa, né all’auto, in quanto sottratta all'urto diretto, i cui effetti erano stati assorbiti principalmente dal manubrio, le cui estremità si erano abbassate all'altezza delle deformazioni rilevate
- l’auto era quindi ferma sulla banchina e veniva tamponata dal biciclo, che impegnava la banchina alla velocità di 40-50 km/h ed arrivava all’urto fortemente destabilizzata dall’energica frenatura di cui sopra (ciò integrerebbe la violazione, per il ciclista, dell’art. 143 CdS per aver percorso la banchina, anziché il margine destro della carreggiata)
- la sagoma dell’auto era completamente all'interno della banchina o, forse, col fianco a ridosso della linea bianca
- non vi erano elementi tecnici, né indicazioni testimoniali, utili ad accertare se l'autovettura fosse ferma da tempo in corrispondenza del punto d'urto, ovvero se l'urto fosse avvenuto contemporaneamente all'arresto dell'autovettura: conseguentemente non fu possibile stabilire se vi fu un’improvvisa manovra di arresto dell'auto o un tardivo avvistamento da parte del ciclista
- nel caso di urto avvenuto con autovettura ferma da tempo, il perito scrive “ritengo che l'automobilista fosse autorizzato ad accostare e fermarsi sulla banchina, praticabile, fuori dalla carreggiata”.
Enzo, presente all’udienza di discussione della perizia, in un primo tempo non credeva alle proprie orecchie, avendo sentito ciò che il perito stava dicendo, in particolare il fatto che l’auto fosse in sosta completamente entro la banchina; di lì a poco, però, non credeva neppure ai propri occhi, quando vede il proprio Consulente Tecnico proiettare la ricostruzione planimetrica dello stato dei luoghi:
- nel I grado di giudizio vi erano più testimonianze che concordavano circa la posizione dell’auto e del ciclista, anche se l’analisi comparata ha permesso di ricostruire tre possibili ipotesi. Tutti concordavano che il ciclista fosse con il capo in prossimità dello pneumatico posteriore destro, ma secondo taluni l’auto era a 20-30 cm dal ciglio erboso, secondo altri il ciclista era a 20-30 cm da tale ciglio, mentre infine un ulteriore teste ha riferito che il ciclista era sulla porzione asfaltata, senza indicare misure;
- le possibili posizioni statiche erano pertanto tre e sono state documentate dal Consulente nel brevissimo lasso di tempo tra il deposito della perizia e l’udienza di discussione della stessa, previa ricerca di un’auto identica: non risultavano necessari commenti, poiché in tutte e tre le posizioni l’auto invadeva in modo apprezzabile la banchina.
Nonostante ciò, il giudizio di II grado si risolveva nel febbraio 2013 con assoluzione, perché il fatto non costituiva reato, pur con pronuncia secondo l’art. 530, 2° c. cpp (ossia secondo quella che, in passato, era la formula dubitativa dell’insufficienza di prove), in quanto “… alla luce delle risultanze logiche, coerenti e del tutto condivisibili della perizia … non può dirsi affatto raggiunta la prova certa, oltre ogni ragionevole dubbio, in ordine alla colpevolezza dell’imputato”, inoltre – pur riconoscendo la violazione dell’art. 157 CdS da parte dell’automobilista in ordine al divieto di sosta sulle banchine – il Tribunale non l’ha reputata connessa al caso di specie, poiché da un lato il divieto sarebbe stato finalizzato a permettere l’utilizzo delle banchine ai pedoni e, dall’altro, non era possibile prevedere il sopraggiungere del ciclista (e ciò nonostante l’automobilista avesse dichiarato di aver sorpassato, poco prima del fatto, due ciclisti!).
Da quanto fin qui esposto si comprende che, quando la materia del contendere ha forti connotazioni tecniche (sinistro stradale, infortunio sul lavoro, malfunzionamento di un macchinario ecc.), sono di fatto i consulenti/periti ad orientare pesantemente il giudizio e, con esso, l’eventuale condanna dell’imputato e il conseguente risarcimento spettante alla parte lesa.
Ma il nostro caso non termina qui: Enzo aveva ormai imparato che non bisogna demordere e, tramite i suoi avvocati, nel giugno 2013 procedeva a depositare ricorso per Cassazione, basato – tra le altre cose – sul fatto che la sentenza di II grado fosse illogica, poiché non aveva recepito il fatto che l’auto avesse comunque invaso la carreggiata (ben documentato e discusso all’udienza d’appello dal proprio Consulente Tecnico) e che tale violazione fosse da ritenersi causalmente connessa con il sinistro, affermando che, in ogni caso, il comportamento dell’automobilista fu imprudente e ciò portò alla concretizzazione dell’incidente.
Ad un anno di distanza, nel giugno 2014, la IV Sezione Penale della Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di II grado (ai soli fini della responsabilità civilistica, l’automobilista è stato comunque definitivamente assolto): da un lato lo specifico incidente rappresenta il concretizzarsi del rischio che le norme prudenziali del CdS violate puntano sempre a prevenire, dall’altro la sentenza d’appello era errata laddove riteneva che il ciclista, poiché percorreva la banchina, fosse a sua volta incorso in una violazione al CdS: chi va in bicicletta, ha detto la Cassazione riprendendo il CdS, è un utente “debole” della strada e come tale è equiparato al pedone, che ben ha diritto, per particolari motivi di traffico, a servirsi della banchina.
In linea teorica, il giudizio avrebbe quindi avuto uno strascico in sede civile per quantificazione e risarcimento del danno patito, ma la Compagnia di assicurazioni ha preferito trovare un accordo con Enzo, che ha incassato una somma a tacitazione degli enormi danni patiti.
Ritornando al titolo di giornale… se Enzo non avesse avuto da subito l’assistenza di un collegio difensivo, probabilmente il titolo sarebbe stato "CICLISTA TAMPONA AUTO E RIMANE PARAPLEGICO", invece, nonostante avvocati e consulenti tecnici non possano curare la gravissima lesione patita, il titolo che più si addice al nostro caso è diventato: "AUTO TAGLIA LA STRADA A CICLISTA: GRAVISSIMO ALL’OSPEDALE" e – quantomeno – oggi Enzo sa che la causa principale del sinistro va ascritta alla manovra dell’autovettura antagonista e, per tale motivo, la compagnia di assicurazione del veicolo ha così risarcito Enzo per le lesioni patite.